31 ottobre 2007

l'emigrazione in camera da letto

Siamo sempre andati dagli altri a lavorare e dovremmo avere rispetto per chi adesso viene da noi a lavorare. Non è così e in questo modo oltre a disprezzare la storia degli altri disprezziamo anche la nostra. La gran parte delle donne immigrate in Italia non arrivano in una città o in un paese, ma semplicemente in una casa dove c’è una persona che non abbiamo più tempo e voglia di assistere. Vengono per lavorare nell’unica fabbrica efficiente che abbiamo, la fabbrica dell’agonia. La civiltà contadina non era particolarmente efficace nel garantire beni materiali, ma assicurava almeno una buona gestione della morte e della malattia. Intorno al letto di un sofferente c’era sempre animazione. Era un fatto normale. Si faceva per gli altri quello che gli altri avrebbero fatto per noi. Adesso le donne dell’est sono le custodi di un crepuscolo solitario. E quando la persona assistita muore si ritrovano disoccupate, devono ricominciare in un’altra casa, in un’altra agonia. Forse queste donne non scrivono le lettere commosse e commoventi che scrivevano i nostri emigranti. Usano il telefonino e non resta traccia dei loro umori. Non sappiamo come ci vedono, come vedono le nostre piazze vuote, le nostre case grandi senza libri e senza pianoforte. Queste donne scendono ogni giorno nelle miniere della malattia, ma non c’è niente da scavare e da riportare in superficie. Oltre ai pochi soldi che diamo si ritrovano in tasca come buonuscita il ricordino della persona defunta. __Sarebbe il caso di coinvolgerle nella nostra vita prima ancora che nella nostra morte. Un coinvolgimento collettivo, pubblico, politico. E invece al massimo le usiamo come ripiego alla nostra disoccupazione sessuale. Insomma, queste donne non sono qui per contribuire alla costruzione di una società come accadeva a noi in Svizzera o altrove, ma per occuparsi dei nostri corpi. Corpi morenti o corpi astinenti, comunque corpi afflitti, soli, sformati. Uno scapolo indigeno che lavora in campagna non ha nessuna possibilità con le ragazze italiane. Uno che odora di stalla non ha nessun sex appeal per le nostre fanciulle apparecchiate sul modello delle veline. Ormai sono tanti quelli che nelle nostre campagne hanno la moglie rumena o albanese. E non è un tradimento al motto “moglie e buoi dei paesi tuoi”. In fondo per questi nostri ultimi contadini le vere straniere sono le fanciulle indigene, quelle che usano il loro corpo per mandare in giro i vestiti e gli occhiali da sole e il telefonino.
Viviamo in una situazione sconvolgente e la cosa più sconvolgente è che questa situazione non sconvolge nessuno. Tutto è relegato in una dimensione ineluttabilmente privata. Noi siamo emigrati per fare piazze e palazzi. Lavoravamo in spazi pubblici, costruivamo un mondo. Adesso il vero centro dell’immigrazione che ospitiamo è il letto. Piaghe da decubito o masturbazioni, poco importa. Non abbiamo da proporre altro che questi corpi senza destino. Allora i veri stranieri, i veri sbandati siamo noi. Basta guardare le facce nostre e quelle degli altri le poche volte che camminiamo affiancati. In realtà temiamo il confronto. Loro si muovono a piedi, sono le uniche persone che non hanno automobili. Hanno polpacci forti, schiene dritte. Hanno volti in cui ancora spira quell’indefinibile senso dell’umano che sembra svanito dal nostro sguardo.
Ci sarebbe bisogno di una trasfusione collettiva di spiritualità. Far scendere il loro sangue nelle nostre vene. E invece accade che lasciamo cadere nelle loro tasche solo poche monete.
franco armino, l'unità 31.10.07

1 commento:

Antonio Romano ha detto...

Caro Franco,
il tuo articolo mi lascia senza parole e lo condivido in pieno. Se mi consenti vorrei lasciare un'aggiunta a quello che tu scrivi. Mi è capitato nei miei viaggi di imbattermi nella Romania, nella Slovacchia, nella Bulgaria, Repubblica Ceca. Zone povere ma allegre, zone di emigrazioni moderne dove un animo sensibile non può che cogliere la nostalgia per un tempo mitico nostro che non c'è più. Gli stranieri non ci amano molto, dicono che siamo persone tristi e senza voglia di vivere. Basta varcare i confini dopo Trieste ed entri in un mondo che ti rapisce per la sua capacità di portarti in una dimensione semplice ed umana che in Italia sai di non trovare più. E allora? Io amo l'Est Europeo e spero che davvero ci si mescoli sempre più quanto meno per recuperare quella vitalità italica che nei decenni scorsi ha determinato la nostra identità di popolo povero ma dignitoso.
Oggi non c'è povertà, ma neanche dignità.
Romano