14 giugno 2007

Alamaro a TEORA

EDUARDO ALAMARO, come annunciato, APPRODA a TEORA
Ho ritagliato il suo intervento poiché molti mi hanno scritto di aver avuto difficoltà a trovare il testo nell’ambito della rivista.
Non me ne voglia LPP. Chi vuole approfondire può comunque collegarsi a http://www.prestinenza.it/ http://presstletter.com/

Edoardo Alamaro ci parla di: La scossa scassa / 2 (un giorno da TEORA)
INTERMEZZOLa scossa scassa / 2 (la Teora infuriata) Dai leoni di Lioni ai tori di Teora, seconda scossa d’architettura post/irpina, decimo grado scala eldorado, nuovo “intermezzo” sismico, sussultorio ed ondulatorio insieme, non ci facciamo mancare nulla a “PresS/Tletter”, grazie LPP. Siamo arrivati comodamente in macchina sulla Tora (dal greco, altura, ndt) di Teora, 1500 abitanti, 600 nuclei familiari, tre colli sormontati (nello stemma comunale) da un toro; anzi da un castello quadrato (con maschi cilindrici negli angoli) e una chiesa barocca con alto campanile, quello di San Nicola de Mira (acuta), protettore del paese e del centro abitato medioevale tutto, acquattato sotto i due edifici-chioccia, emergenti e potenti nell’antico skyline addormentato. Di tutto ciò non c’è più niente, né il castello-gallo (con cresta e merli decaduti), tanto meno la gallina-chiesa/madre; idem il “pollaio” dell’abitato “di sotto” (località Pianistrello), coi nidi abitativi secolari e i suoi pulcini ormai orfani, pigolanti e tremanti dal freddo. Ma non piangete, amici dell’Intermezzo, non disperate: è vero che chioccia, gallo e pollaio sull’antica Teora, quella povera venuta su a granone, calce e pietre del luogo, sono stati spazzati via dalla terribile botta del terremoto dell’80 (e dai suoi complici “ruspanti”, mi capite?), ma quelle familiari emergenze architettoniche sono state riconfermate e potenziate dal piano di recupero del centro storico post/sisma dovuto a Giorgio Grassi e Agostino Renna (con collaboratori), quali segni insopprimibili della Storia, permanenza del Monumento nel luogo, memoria collettiva da collettivizzare. Come a dire: dov’era (“l’ineludibile monumentalità”), ma non com’era: gallo, gallina e pollaio sulla tora, cioè la casa/fortezza militare di sopra, il campanile santo di mezzo e l’abitato-suddito “di sotto” – il triangolo, anzi, il teorema di Teora – sono stati sostituiti da analoghi e “moderni” segni/sogni, in linea con una possibile “Te-ora (et labora)” d’oggi, derivata da una “costruzione logica dell’architettura”, fatta a tavolino, nel luogo, per il luogo, ma – pare – non con quelli del luogo, qui il punto. Ogni scelta progettuale (così come ogni nostro “Intermezzo”) è una scommessa, un rischio in sé, si sa, nel gran Casinò del gioco d’azzardo dell’Architettura moderna, e quella fatta sulla tora (altura e teoria) di Teora è stata persa, non c’è dubbio, secondo gli abitanti che si affollano qui intorno, fuori la chiesa, e che mi dicono tante (feroci) cose sul nuovo abitato compatto “di sotto” e su quello del Castello che sta “di sopra”, ahinoi; architetture che “loro” butterebbero volentieri via “in blocco”, come abiti dimessi e/o fuori moda, ma non si può, non è edilizia “pret-à-porte”, edilizia da rot-amare, ma solo d’amare, per amatori, anzi per ama-teoros, specie che però qui manca. Si, nella pratica, la nuova “Teh!Ora” (senza labora), non ha funzionato molto: questi simulacri del passato son rimasti ancor oggi, per questi abitanti, interrogativi monumenti non abitabili, non comodi; ci stanno dentro a forza, tori e teoresi scalpitanti ed infuriati, come “castellani a forza”, loro malgrado, esposti a tutti i venti (e gli eventi) della Tora. Al pari pregano a forza in quella chiesa “di mezzo” (progettata da Giorgio Grassi) solo perché è un atto di fede: lì dentro c’è comunque l’Ostia consacrata, ma non amano quel tempio, anzi “uno” mi dice al volo che “pare ‘nu garage”, con Gesù parcheggiato dentro, mentre Loro, (l’oro?) l’avrebbero gradito più mobile; anzi “ultramobile”, flessibile, più abitabile dall’ uomo d’oggi, col telefonino ed il computer, modello Giovanni Paolo. Uomo e fedele modello “Santo subito”, anzi, ‘e ssubbito! Sintetizzo e riformulo quello che ho ascoltato per Voi, se ci credete, ma ho come testimone la Verderosa post/Irpinia: se prima (del sisma) Teora era uno dei tanti paese-presepe del nostro Appennino campano, ora, nella sua parte più radicale, è un paese-presepio in scatola, concentrato in sei blocchi, simili a sei container, “sei enormi casse da morto”, mi dicono i più cattivi; se prima (del sisma) era un paese sfuso ora, per molti versi, è un inabitabile paese a “pacchetti”, come le sigarette di contrabbando a Napoli del dopoguerra: “Camell, Marlborr, Cesseffiete, chi fumma a Teora!!!” Ed il fumo (d’architettura) fa male agli abitanti, si sa! E’ allarmante ma al contempo interessante tutto ciò. Mi piacerebbe capire meglio (un’altra volta, LPP “multa”) come i teoresi (o teorosi?) “in compressa” del Pianistrello, località ora ribattezzata “Piangistrello”, si sono ripresi lo stesso spazi di libertà abitativa; come hanno reso in qualche modo abitabile, sopportabile, quel rigido plastico architettonico “di tendenza”. Si vede a occhio che “la gente” ha spertusiato (bucato, ndt) quelle facciate “sovietiche”, bulgare, (come le chiama il giovane sindaco, che gentilmente ci ha “informato sui fatti”, nonché del suo tentativo di mantenere «‘u carro pa’ scesa»); si dovrebbe entrare nei singoli appartamenti, studiare cos’è avvenuto “dentro”, capire “da dentro”, antropologicamente, il contro-uso (ed ab-uso) dei tori e teoresi di massa; come hanno dato cornate e “ciampate” all’interrogativa scatola d’abitazione “a sorpresa”. E’ una sorta di sangue ed arena dell’Architettura, sisma continuo. Grassi se lo prendono lo fanno Magri, scherziamo, scherzano, o no? E mo’? Moplen? Teorem? Che farem? Che faranno? Modesta proposta: evacuare le nuove Emergenze, sottolineare l’Emergenza del Monumento, ben colta dal progetto post/irpino, che a me non dispiace, nella sua astrattezza ed inattualità, nel suo essere necropoli, grande colombario (forse unico riuso compatibile). Fossi Grassi, ma non ho “la stazza” (né la stizza degli abitanti), riconoscerei umilmente che la “collettivizzazione forzata d’architettura” non ha funzionato, non è stata capita, non so, non è (e c’è) più tempo; forse gli abitanti non sono stati all’altezza degli architetti, non ne hanno colto il messaggio, né il massaggio del loro illustre compaesano Agostino Renna; si sono spersi nel Monumento, non si sono ritrovati nel minimo vitale, non si sono ritrovati nell’intimo e nell’intimità di Theorà, non ne hanno letto le “istruzioni per l’uso”, recitano a soggetto su quel canovaccio. E’ per questo motivo ho vissuto ogni modifica apportata, ogni finestra spostata dagli abitanti, come uno sfregio alla Gioconda, o l’aggiunta di un pizzetto a quella già “modificata” genialmente da Duchamp. Ma siamo diventati veramente tutti Giocondi? Tutti artisti? Per salvare il salvabile, per salvare quest’Architettura estrema e nobilmente patetica, bisogna svuotarla assolutamente dagli “ingrati” abitanti, dal primo fedele fino all’ultimo bambeniello di Teo(comp)rà; renderla puro spazio metafisico della memoria, assoluto Memento e Monumento al post/sisma, a ciò che l’Architettura – coi suoi strumenti disciplinari più rigorosi – ha cercato di fare, bello (o brutto) che sia, fate voi, ad ognuno il giudizio, se lo ha! Una prece su tutto ciò. Stop, alla prossima puntata del tour, a curiosare nella Bisaccia di Aldo Loris Rossi, ma con calma. Saluti, alla prossima da Venezia/Biennale, Eduardo Alamaro (Eldorado)