5 gennaio 2008

dal goleto a castel del monte con la moto di federico II

Ieri sera, "viaggiando", come al mio solito con la testa tra le nuvole dell'alta irpinia, sono arrivato all'Abbazia del Goleto... stavolta mi sono perso davvero e sono arrivato un pò tardi. Mi sono perso la prima parte (è stato ricordato un monaco benedettino, P.Lucio, che ha riaperto l’Abbazia 200 anni dopo la soppressione napoleonica; l’Abbate di Montevergine si oppose per 10 anni al proposito di P.Lucio; nel 1973 P.Lucio partì da Montevergine senza un libro e senza un abito di ricambio; con Lui l’Abbazia è risorta) . In compenso ho sentito la Messa ...era parecchio tempo. Angelo è stata una "guida" speciale nell'accompagnarci a leggere la storia e l'architettura di un luogo fantastico. Giorni fà Vi parlavo delle "forme della comunicazione" e lì ne ho ritrovata una: "l'ottagono" (nei basamenti delle colonne della Chiesa di S.Luca -1250- opera delle maestranze inviate da Federico II da Castel del Monte al Goleto, in ossequio alla Badessa Marina II). La forma del Graal? La forma della "macchina del tempo" (o configurazioni del mutamento, o moto perpetuo?). Ho ritrovato le "forme della bellezza di molti luoghi" che ho visto nei miei viaggi con la mia moto del tempo. Oltre ai cerchi e alle spirali. Ieri sera ho anche conosciuto tante altre persone speciali (Antonio Vespucci e Antonietta Cassese da S.Andrea di Conza, Tonino Restaino e Emidio De Rogatis da Teora, Giuseppe De Mita senior, Antonio Ressa e Gianni Acquavivola da Nusco, Antonio Imbriano, il giovane Gerardo Policano, i già comunitari Giovanni Maggino, Pasquale Lodise, Antonio Luongo di Cairano, Arcangelo de la Locanda, i monaci goletani Paolo Maria - Roberto e Wilfried-). Siamo partiti dalle dune di silice del Presepe allestito da Antonietta, si cava da 8.000 -ottomila- anni in prossimità di Melfi, siamo passati per il sepolcro di mARCO pACCIO mARCELLO al Goleto da 2000 anni, alla viabilità Romana (da Aeclano per la Traiana e l'Appia), a Santa Felicita, all'asse viario (pellegrinaggi + armenti) Picentia-Monte Sant'Angelo con sosta alle sorgenti dell'Ofanto (e quindi al Goleto), a S.Guglielmo e al suo terzo pellegrinaggio mancato, a Marina II, a Federico II, a Giulio II ... alle 10 e 30 eravamo in otto intorno alla colonna ottagonale ... in un council improvvisato. Siamo quindi passati da Teora (baricentro tra le civiltà di Oliveto e Cairano), col toro sannita nello stemma a Pescopagano con la petra del Giano bifronte. Abbiamo degnamente ricordato i nostri protostorico-genetici irpino-sanniti, guidati dal lupo che infine ha accompagnato S.Guglielmo -patrono dell'Irpinia- entrando in s.Pietro nella navata principale - lato dx. E i longobardi con il culto dell'Angelo, dell'Arcangelo, da Sant'Angelo (dei Lo/mbardi) a Monte S.Angelo. E ancora le fondazioni abbaziali di Guglielmo (dal Goleto verso l'Oriente a cui tendeva): S.Michele a Monticchio, S.Maria di Pierno, passando per Lagopesole, Venosa e ... Castel del Monte. / E' bella l'idea che Angelo ci ha proposto: andare a visitare Castel del Monte costruito da Federico II -che ne dite di un viaggio a piedi?- La ritengo molto importante e quasi per me una scelta obbligata (poi capirete perchè). Alcune delle "forme" architettoniche che si trovano nel Castel del Monte, Angelo le ha ritrovate nell'Abbazia del Goleto. Ho spiegato, a tutti gli amici presenti nel cerchio di ieri sera, che la ricerca, il viaggio che stiamo facendo, non è casuale. Le "forme" geometriche di Castel del Monte (in primis l’ottagono), delle Piramidi, di Stonehenge e di alcune colonne della chiesa di S.Luca corrispondono al numero aureo di Fibonacci... sull'argomento tempo fa ho scritto delle cose. // Trovate il (vostro) tempo e leggete ...(questi i due link) http://www.girodivite.it/Le-nuove-frontiere-della-fisica.html ... http://www.girodivite.it/Renato-Palmieri-ci-apre-una-porta.html saluti da Enzo Maddaloni (nanosecondo) e da Angelo Verderosa

info sul Goleto: www.goleto.it

per vedere le foto della Piazza (Premio Intraluoghi 12007): http://www.flickr.com/photos/verderosa/sets/72157603301906895/

il videoclip nella Cappella di S.Luca

Il "GIARDINIERE" ricorda Padre Lucio

Oggi pomeriggio mi sono recato al Goleto alla commemorazione di Padre Lucio, e mentre guardavo le diapositive con cui Angelo Verderosa illustrava la storia dell’Abbazia, con la mente ritornavo a quei giorni d’estate agli inizi degli anni settanta quando un gruppo di ragazzi e ragazze di cui facevo parte anch’io, provenienti da ogni località d’Italia per le vacanze estive a Nusco, a piedi scendeva alle - allora - rovine del Goleto, per visitarle e per conoscere Padre Lucio. Erano quelli anni di grandi fermenti politici e ideali ed eravamo affascinati dalla scommessa di Padre Lucio di far rivivere quelle pietre, di costruire una comunità attorno a degli ideali che noi giovani studenti alquanto confusamente, mischiavamo con i capovolgimenti di anni belli e terribili. Stavamo ore seduti sulle pietre a discutere con lui anche animatamente ma senza mai perdere di vista la prospettiva che lui ci raccontava come se fosse cosa viva: far rivivere il Goleto. Credo che ci sia riuscito, anche se lui non ha potuto vederlo - e mentre ritornavo in macchina a casa, vedevo le luci dell’Abbazia nella notte della valle dell’Ofanto illuminata come un faro di speranza per viandanti senza meta. Padre Lucio ha vinto la scommessa! __ Il giardiniere 4/1/2008

le foto della cerimonia di dedicazione della Piazza a P.Lucio Maria De Marino al Goleto http://www.flickr.com/photos/verderosa/sets/72157603649051470/

la libertà di essere vasti

Ieri mattina ho scritto l’articolo intitolato “stipendi e rifiuti”. L’ho scritto per un sentimento d’indignazione che mi dava un dolore fisico, dolore che la scrittura dell’articolo non ha dissolto. Ieri pomeriggio ho scritto le poesie che potrete leggere qui sotto. Perché le metto? Per affermare la liberà di essere vasti. Abito diversi luoghi. Sono una creatura di frontiera. Non è un merito. È così e basta. L’articolo è fatto ed è già perso nel vortice delle chiacchiere che si elidono a vicenda. Su queste poesie ritornerò, le alleverò come porcellini e non so che fine faranno. Le parole della poesia hanno bisogno di riletture nel tempo per vedere se resistono. Ma intanto, qualunque sia la vostra reazione, adesso sono qui, esposte come panni al vento. __ arminio 4.1.08
L’ASTRO INCAPPUCCIATO
1.
Batto i tasti senza sapere se sono vivo o morto,
guardo le mie scarpe, sento che ho le dita
un poco fredde e vado avanti, avanti
con la mente che mi bagna le braccia
e poi cade a terra, la mente come una luce
che filtra dal mio corpo e prende la via del mondo,
la mente che prende il mio corpo tra le sue braccia,
ora tutto il mondo è tra le mie braccia,
venite a vederlo, pare un bambino appena nato.

2.
Tutto questo tremare,
questo tremare in continuazione
che mi ha così stancato.
Mai un giorno, mai un momento
che sono stato tranquillamente morto
in mezzo alla vita, addormentato
come cosa tra le cose,
sempre lì a cercare, sempre ad agitarmi
per ingrandire l’attimo che viene
mai la voglia di evitarlo,
mai la voglia di trascurarvi,
di trascurarmi.
3.
Parliamo, lottiamo,
svegli, vivi, addormenti,
col sole, con la nebbia,
da bambini, da vecchi,
allegri, tristi, moribondi,
sempre noi,
ombre illuminate da un cerino,
cerini dell’ombra.
4.
Il giorno in cui moriremo
il vento come sempre passerà
in mezzo a questa casa che si chiama mondo.
In mezzo alla casa un corpo rigido,
trascinato via dalle invisibili formiche
dell’eternità.
5.
Quando moriamo
la mente si apre come una tovaglia,
si apre a tal punto che non può contenere
più nulla, neanche una briciola del nulla.

6.
In certi funerali le persone
hanno una bella faccia, bella voce
e pare che si vogliano riunire
come per sciogliere vecchi confini.
La casa del morto fa tenerezza.
C’è chi guarda con attenzione
anche un tavolo, anche un calendario.
7.
Un sorriso,
un femore rotto,
un amore, un morto…
tutto è appoggiato
sulla barca senza destino
che vaga per il corpo.
8.
Andate nel mio letto,
andate a prendere le mie mani
andate a prendere la mia faccia.
Con le mie mani ho salutato la mia faccia
con la mia faccia ho salutato le mie mani.
9.
Adesso ho un umore cieco,
mentre prima mi sentivo lieve
nel saliscendi della vita,
mi piaceva che andasse da ogni parte.
Adesso il tempo si è ammalato
mi passa dentro come una valanga,
come un cane affamato.

10.
Non sono mai stato dentro la vita.
Ci ho sempre girato intorno
come se fosse una mina antiuomo
che se la tocchi scoppia.
Adesso lo so che ho sbagliato
e che bisogna esplodere,
perché il nostro corpo è già una fiamma,
una succursale del sole,
un piccolo astro incappucciato.

stipendi e rifiuti

Metto qui un pezzo che uscirà domani 4 gennaio sul corriere del mezzogiorno. Quando comincio un discorso cerco di portarlo avanti e mi piace farlo anche senza vezzi letterari. So che in fondo è penoso dover ricordare certe cose, bisognerebbe parlare di ben altro (e io penso di farlo) ma abbiamo una regione sommersa di immondizia e abbiamo questi politici. Si può discutere sulle forme, ma un ritorno alla politica mi pare importante. Nei prossimi giorni mi piacerebbe che cominciassimo a ragionare intorno al tema del paesaggio. In fondo è stato il tema con cui abbiamo avviato la comunità. __ f.a. 3.1.2008
Stipendi e rifiuti
Il recente “rifiuto” dei consiglieri regionali di ridurre il proprio stipendio del dieci per cento è molto grave di fronte alla ormai macabra situazione dei “rifiuti”. Mettiamo anche che i politici campani siano bravissimi a risolvere ogni genere di problema, ma il fatto che da anni ci sia un commissario straordinario che si occupa dell’immondizia vuole dire che si tratta di politici destituiti di almeno una parte della loro funzione e quindi sarebbe logica la riduzione dello stipendio.
Qui non c’entra niente l’antipolitica e non c’entrano niente i discorsi sulla vecchia e la nuova politica. È una questione di giustizia. Un operaio viene pagato per le ore di lavoro effettivamente svolte. Nelle fabbriche bisogna recuperare anche un ritardo di cinque minuti. Non si capisce perché i politici debbano impunemente essere liberi di fare danno: basti pensare al fatto che senza rifiuti Napoli sarebbe piena di turisti. A questo punto qualcuno dirà che l’arma per far pagare il conto è in mano ai cittadini e si chiama voto. È un’obiezione fondata solo in parte. Sappiamo bene che con i meccanismi attuali non siamo noi a scegliere i nostri rappresentanti nelle istituzioni, ma si tratta semplicemente di confermare scelte fatte da altri.
Prima di discutere su come risolvere i problemi di una società, i diversi partiti hanno il dovere di avere le carte a posto. E siccome il pd, cioè il partito che governa quasi tutto in Campania, sta costruendo in questi giorni le sue carte, sarebbe opportuno che ci fossero scelte nette e di minima decenza.
Se la riduzione dello stipendio è un gesto di rispetto nei confronti dell’intera società che si pretende di governare, scrivere una norma che impegna gli eletti a versare una quota significativa al partito è un gesto di rispetto nei confronti della politica che si pretende di rappresentare. In questo campo si può procedere anche in maniera unilaterale, non c’è bisogno di tavoli e convergenze istituzionali.
Senza la riduzione degli scandalosi costi della politica è come assistere a un incontro di pugilato in cui i contendenti sono imbottiti di cocaina. La colluttazione è singolare: non si fanno male quelli che fingono di combattere ma i cittadini che assistono allo spettacolo.

non solo irpinia

metto qui, proseguendo i miei esercizi di ammirazione, un testo appena letto su Zibaldoni, uno dei migliori luoghi della rete. http://www.zibaldoni.it/ andate a visitarlo. andare dietro il paesaggio, dietro il nostro paesaggio, non significa essere paesani. la comunità è un luogo aperto, ventilato. Zibaldoni ha un respiro internazionale ed è fatto ad Angri, mi pare un ottimo auspicio per il nostro lavoro. prossimamente metterò altri pezzi importati da questa preziosa rivista.
___ arminio 2.1.2008
Il peso lieve dei sogni / Werner Herzog tradotto da Stefania Conte
Non sono mai stato uno di quelli che si preoccupano della cosiddetta felicità. Felicità è uno strano concetto. È qualcosa per cui io non sono proprio fatto. Non è mai stato un mio traguardo; io non penso in questi termini. Sembra sia lo scopo della vita di molte persone, ma io non ho scopi nella vita.
Credo di cercare qualcos’altro. Dare alla mia esistenza una qualche sorta di significato. È una risposta molto semplificata, lo so, ma che io sia felice o no non conta molto.
Mi è sempre piaciuto molto il mio lavoro. Forse piacere non è la parola giusta: l’ho sempre amato.
Significa molto per me godere del privilegio di fare questo mestiere, benché io abbia lottato per girare i miei film esattamente come desideravo e renderli tanto prossimi alla visione che stavo cercando.
All’età di quattordici anni, una volta compreso che per me il cinema era un necessità morale, non ho davvero avuto altra scelta che portare avanti i miei progetti.
Non mi annoio mai. Questa parola non esiste nel mio vocabolario. Pare che io spaventi e stupisca mia moglie essendo capace di rimanere a fissare ciò che si trova fuori dalla finestra talvolta per giorni, persino quando non accade nulla di speciale. Posso sembrare catatonico, ma non lo sono dentro. Ci sono tempeste che ruggiscono dentro. Penso fosse Wittgenstein che parlava dell’essere all’interno di una casa e vedere all’esterno una figura che si dibatte in modo strano
Da dentro non puoi capire quali bufere stiano imperversando lì fuori, e così trovi la cosa divertente.
Ogni mattina appena sveglio sento una specie di mancanza.
“Ancora! Perché non ho sognato?”. Mi sento come quelli che non mangiano o dormono abbastanza, che sono sempre affamati o stanchi, e questa può esser una delle ragioni per cui faccio film. Forse voglio creare per lo schermo quelle immagini che sono così manifestamente assenti dalla mia testa durante la notte. Comunque , io fantastico continuamente.
È mia sincera convinzione che le immagini nei miei film siano anche le vostre. In qualche modo, nelle profondità del vostro subconscio, le ritroverete mentre si celano inattive, come fossero amici che dormono. Vedere le immagini del film le risveglia, come se vi stessi presentando un fratello che non avete mai realmente conosciuto. Questa è la ragione per cui tante persone ovunque si sentono in collegamento coi miei film. La sola differenza tra voi e me è che io sono capace di esprimere con una qualche chiarezza queste immagini mai pronunciate e mai rivelate, i nostri sogni collettivi, comuni.
Ho sempre sentito che, fino ad un certo punto, il cinema dovrebbe incoraggiare ciascuno a prendere sul serio i propri sogni e ad avere la forza di fare davvero ciò che desidera, anche se talvolta si può fallire. In Burden of dreams, il fil m c he Les Blank ha girato sul set di Fitzcarraldo, racconto la storia del mio ritorno in Germania, quando le cose non andavano molto bene mentre giravamo, nel tentativo di non perdere tutti gli investitori del film. Tutti allora mi domandarono se ero intenzionato a continuare col mio progetto. “Ne hai davvero la forza e la volontà?”. Li guardai e risposi, “Come potete farmi questa domanda?” “Se abbandonassi questo progetto sarei un uomo senza sogni”. E andai avanti, a dispetto di queste resistenze, terminando il film.
Se qualcuno guarda Fitzcarraldo e trova il coraggio di portare avanti i propri progetti, allora il film ha davvero raggiunto il suo scopo.
Se una persona su trecento esce dal cinema dopo aver visto uno dei miei film non sentendosi più sola, allora ho ottenuto tutto quello che mi ero proposto girandolo. (Brani liberamente tratti e adattati da Herzog on Herzog, Faber and Faber 2002)

da Lisbona, Marco Ciriello

Per la serie "esercizi di ammirazione" iniziata con Innarella e proseguita con Fumagallo, mettiamo qui un reportage di Marco Ciriello. Si può essere bravi scrittori e vivere in un piccolo paese come Pietrastornina. Marco scrive per Il Mattino e ha pubblicato due libri con Pequod. Il resto ve lo dirà lui in uno dei prossimi incontri della Comunità. ___ f.a. 3.1.2008
Le scale della metropolitana hanno il respiro dei poveri e la puzza di piscio di chi ci passa la notte. È quello il primo odore che senti, poi alzi gli occhi e leggi: «Cais do Sondré». Il secondo è un pensiero per la vita silenziosa della città. Ti muovi con familiarità, non devi fuggire dall’istante, c’è una tranquillità per le strade mattutine che sfiora la finzione. Ha rampe che ti consegnano al mare rubandoti il fiato e vicoli che ti inchiodano al realismo delle voci sui muri: «O Estado rouba, rouba ao Estado». Quando vedi un tram, vecchio, giallo, stinto, spuntare dalle spalle di un palazzo piastrellato d’umido: arrancare e presentarsi semplice e stupido alla ripetizione del suo tragitto, non puoi che sorridere della sua certezza: c’è e ci sarà ancora. Rassicurante come una preghiera. I tram attraversano ignari piazze immobili per il piacere dei turisti, sospesi in mezzo alle morbide piogge di questa città, orfani nella notte, girano per tranquillizzare. Lisbona ha un ritmo lento, per questo se li è tenuti, ha strade piene di luce e cieli trasparenti sul silenzio, spesso rotto dalla gente che urla a testa alta. In molti parlano soli. Seduti, composti, vecchi biglietti della sorte fra le mani o in tasca, fumano cattivo tabacco e puzzano di fritto i pazzi lisbonesi. Li puoi trovare seduti alle fermate dei tram o alle scale della metro, hanno tutti la faccia stanca, molti giorni di pietà in arretrato, e al pari dei tram riempiono le strade aspettando che finisca il giorno. Città tagliata col coltello, si mostra in disordine senza vergogna, sporca di cuore. Ha palazzi d’azzurro porcellana e finestre bianche, squadrate case che registrano luce e sguardi, calore, spazi stretti che diventano salite e selciati, e terrazze con panchine che ci passeresti la vita a guardare di sotto una smorfiosa cattedrale senza tetto, l’immenso spazio d’una piazza o una nave: pettine dimenticato in mezzo all’acqua. Qui si rischia la pigrizia di un sepolcro se lasci vincere l’anima. La ruggine, ombra ruffiana del tempo, accompagna i passi dei turisti. Le insegne sbiadite delle pasticcerie e le loro vetrine che sembrano strade dell’est fanno il paio con la malinconia dei giorni che s’accorciano e le facce da madonne tristi che hanno le portoghesi. In metropolitana, invece, vedi le città da dentro, senza palazzi, solo gente e gallerie, e storie, come quella che racconta a una sua amica la donna salita a «Baixa-Chiado». Dice di aver trovato uno che vendeva giornali d’epoca, comprato un quotidiano con la data di nascita del suo amore: quel giorno di marzo del ’56 si annunciava la prima traversata di non so che cima della terra del fuoco. O la ragazza angolana che - prima di scendere alla fermata di «Martim Moniz» - dice alla sua vicina di posto che oggi ha fatto i conti con la polvere e le ragnatele della casa dove lavora, e quando accenna alla sua vittoria sui ragni: ride rumorosamente, davvero contenta, come se avesse sconfitto Carlo Magno. Sulle pagine de o «Público» il sociologo Antonio Barreto racconta come sono cambiati i portoghesi negli ultimi anni, e seppure in movimento siano rimasti religiosissimi e orgogliosi della propria identità ma a un livello di vita ancora molto basso rispetto alla media europea. Alla fermata «Rossio» c’è un azulejos di una donna in fuga fino a scomparire dietro la linea delle piastrelle che tutti fotografano, e accanto una immagine di un’altra donna, stropicciata, quasi avesse pagato il passaggio. Prima dell’uscita un arabo vende chincaglierie e poco più in là un cieco elegantissimo intona una nenia ogni volta che una moneta risuona nel contenitore di plastica giallognola ai suoi piedi. Alla fine della strada da un furgone verde viene fuori la voce di Amália Rodrigues che canta fado sommergendo la voce del cieco. Uscendo ad «Alameda» si spunta in un bel parco pieno di gente. C’è sole caldo e molti clochard stesi a terra. Un glabro ciccione è il padrone dell’enorme fontana che chiude il lato piccolo del parco con i suoi cavalli di pietra. Disteso, pancia all’aria, si gode la bella giornata. Poco distante un nero seduto su un mucchio di cartoni recita la parte del cattivo, urlando cose incomprensibili a quelli che corrono in tondo, chiude: un sassofonista biondo e barbuto che suona Louis Armstrong. Alla fermata successiva «Olaias», si esce di fronte a due campi nuovi di zecca, uno di rugby: vuoto, e l’altro di calcio, pieno zeppo di ragazzini che sognano Cristiano Ronaldo. Il più bravo ha una vecchia maglietta di Saviola, calciatore argentino, promessa non mantenuta, e agli altri proprio non riesce di marcarlo. Si riparte in compagnia di giovani tedesche, super attrezzate, hanno guide e mappe e telecamere. Mentre sfilano le stazioni di «Bela Vista», «Chelas», «Olivais» e «Cabo Ruivo», pura periferia, si ha l’impressione che tutti filmino le stesse cose che poi finiscono su You Tube, quasi a voler giustificare che hanno vissuto, viaggiando. E osservando le ragazze tedesche: più che fotografare o filmare, sembrano intente a controllare che tutto corrisponda alle guide, perdendo quelle poche ore di gioia che un posto regala a chi gli è estraneo. C’è una pagina di Pessoa dove racconta del più grande viaggiatore conosciuto: un garzone che passava dal suo ufficio, instancabile collezionista di dépliants pubblicitari di città. Un voyeur di cartine geografiche e illustrazioni di paesi lontani. Si faceva dare dalle agenzie di viaggio le guide a nome di un ipotetico ufficio. Aveva opuscoli pubblicitari delle rotte navali dal Portogallo all’India, all’Italia, fino all’Australia. E l’aspetto che lo divertiva maggiormente era che il ragazzo conosceva esattamente per quali ferrovie si andava a Parigi o a Londra, e la sua pronuncia sbagliata di posti lontani li rendeva ancora più misteriosi e interessanti, finendo per avere un mondo tutto immaginifico e distorto dai propri desideri. Tra il garzone di Pessoa e le ragazze tedesche c’è la differenza che passa fra l’innocenza di uno sguardo bambino e la corruzione di uno adulto, non a caso Wim Wenders si poneva una questione molto simile girando «Lisbon Story», finendo per affidarsi alla casualità dello sguardo. Quando si arriva nella nuova stazione «Oriente» opera di Santiago Calatrava, si precipita in una storia di Moebius: gli ascensori tondi e trasparenti che attraversano le arcate in cemento a vista, procurano un salto temporale per chi viene dal centro della vecchia Lisbona, piastrellata, colorata e decadente. Attraversando la stazione con la sua cresta d’osso da dinosauro, il centro commerciale e le opere di architettura di un vecchio expo, si guadagna la vista del fiume Tago. Qui c’è l’unico posto dove la città non esiste e perde completamente il suo fascino, diventando un altro mondo: l’oceanario. Però, dentro i bambini, e forse anche gli adulti, provano sentimenti in modo naturale verso una specie diversa. Ponendosi curiose domande del tipo: come è strana la vita dei pesci? che memoria hanno? c’è stato un tempo lontano che ci apparteneva? Lo scivolare nell’acqua dei pesci è amplificato fino a diventare il suono guida nell’edificio, grandi e piccoli ne seguono imparzialità e soggettività, capriole e cambi di rotta, e i loro occhietti a palla, incavati o anche introvabili, diventano oggetto di discussioni. Che poi vedere in una cosa più di quello che lei stessa vede: è non vedere nulla. L’interesse è per un piccolo, sottile, pesce zebrato dall’andatura sbilenca, e sulla gobba: riflessi dorati. Quando abbandona il suo lato dell’acquario e si abbassa fino a scomparire, sembra una navicella che affonda, portandosi via anche questo vago giorno lisbonese.