Il funerale di Don Leone __ Arrivo che il funerale è già iniziato. E oggi se ne va un prete che si
chiamava Don Leone. Lui viveva senza tirare il fiato. Mangiava dove gli capitava. Non aveva una casa. Dormiva in chiesa, spesso sull'altare, vestito, esausto dopo le lunghe serate passate con fedeli e indemoniati. Un parroco esorcista, infaticabile nel fare il bene e nel guerreggiare
col profondo impulso suicida che è alla radice di ogni possessione. Domenica pomeriggio ad Andretta, in Alta Irpinia. Giornata di latta, appena tiepida. Nell'aria settembrina c'è l'urto dell'autunno e dell'ignoto e una luce debole, pronta ad accartocciarsi verso il buio. Intorno al paese la terra è nera. Sono qui con due giovani antropologhe tedesche. Vengono dal Belice e si sono fermate in Irpinia alla ricerca di spunti per i loro studi. Hanno letto su un giornale locale del prete esorcista e sono assai curiose di vederne il funerale. Camminiamo verso la chiesa madre. Guardiamo i manifesti funebri. Ma del cordoglio stampato sui muri non c'è traccia sui volti delle persone. Un giovane parcheggia la macchina con elaborata precisione. Un demente si
affaccia sul balcone, rompe il silenzio e torna alla sua radiolina. Indugiamo a parlare con un uomo seduto davanti alla porta della casa. Dice che Don Leone era buono, troppo buono e che qualcuno perfino ne approfittava. Quando, prima di congedarci, gli diciamo di voler prendere un caffè, ci invita, con un'espressione decisa, quasi minacciosa, a non fermarci al bar che viene, ma a quello alle nostre spalle, lì la miscela è migliore. Non ci fermiamo da nessuna parte. Sentiamo il rumore di chi cammina dietro di noi. Una delle tedesche, Ute, dice che le piace riconoscere il carattere dai passi. Il rumore di oggi ha una cadenza decisa, la cadenza di chi sa dove andare e ci va con lo sguardo sensibile e le caviglie vogliose. Mi giro. Sono tre donne piuttosto anziane. A qualcuna sicuramente è morto il marito. Loro stanno bene quando escono a comprare il pane e il filo per cucire, ma soprattutto quando muore qualcuno. Peccato che un evento del genere accada solo
trenta quaranta volte in un anno. Ancora un pezzo di strada in salita e siamo sotto il grande campanile. C'è molta gente vicino alla chiesa, ogni tanto c'è chi prova ad entrare. Le persone che parlano hanno le mani ferme. Julia mi chiede come mai tanti ragazzi portano gli occhiali da sole. Le dico che questi ragazzi quando escono pensano prima di tutto agli occhiali da sole e alle chiavi della macchina. Oggi stanno qui perché ci sono tutti. Ma più che guardare vogliono farsi guardare. In un paese in cui, secondo loro, non accade mai niente, questo è un giorno
eccezionale. Ci sono anche tanti forestieri, perfino qualche bella ragazza. Proprio adesso ne sta una uscendo dalla chiesa. Ha le lacrime agli occhi. E sono le prime lacrime che vediamo. Io mi avvicino e le chiedo qualcosa con aria da giornalista. È venuta con la famiglia da Avellino. Per lei Don Leone era come un bambino, un uomo di una purezza incredibile, uno che viveva fuori dalla realtà, un santo. Mi dice anche che hanno dei vestiti che dovevano lavargli. Ora pensano di tenerseli come reliquie. Intanto davanti al portone si è aperto uno spiraglio. È il momento di
entrare in chiesa. Finora avevamo desistito anche perché l'altoparlante fa arrivare ben chiaro il discorso del vescovo, la cui parola svela istantaneamente a quale grado di finzione è sottoposta. Ascoltiamo ripetuti richiami alla povertà e alla fraternità. Il vescovo fa l'elogio di quello che faceva Don Leone, ma lo fa adesso che Don Leone è morto, lo fa perché sempre più spesso non si dice quel che si pensa e non si fa quel che si dice: anche per questo nessuno pone più vera attenzione a niente e a nessuno. Avanziamo lungo la navata. In fondo c'è una porta aperta. Ora siamo in una stanza che è servita ai prelati per prepararsi. Ci sono borse ben chiuse e qualche stola appoggiata alle sedie. È come visitare uno spogliatoio durante una partita. Ancora una porta e siamo sul fondo della chiesa, proprio dietro l'altare. Da qui abbiamo di spalle la massiccia figura del vescovo che continua il suo comizio. Di profilo, disposti a corona, ci sono tutti i preti e i frati della Diocesi. Non li avevo mai visti tutti insieme. Certo le loro facce, pur prive della ideale devozione al mistero di ciò che esiste, sono più interessanti di quelle che sfilano sugli schermi televisivi. Uno mi fa venire in mente la scena di un film con un prete seduto al capezzale di un morente che confessandosi gli fa capire di essere l'assassino dei suoi genitori. Il religioso piamente lo assolve. Poi va a prendere il fucile e gli spara in faccia. Usciamo per cogliere almeno un po' di emozione all'uscita del feretro, qualcuno che tremi per un momento. Le mie compagne hanno nella mente gli strazianti funerali del sud d'Italia che hanno visto nei film. Questo è
un funerale che non è per nulla come se lo aspettavano. Mi chiedono come mai la scomparsa di un uomo che ha fatto tanto bene non sembra suscitare rimpianti. Io cerco di allargare il discorso alla reazione alla morte che in questi paesi è assai diversa da quella di una volta. Lo scorso
inverno sono andato al funerale di un suicida nel mio paese. Un quotidiano provinciale il giorno dopo nel breve trafiletto di cronaca scriveva che tutto il paese si era stretto intorno al defunto. Il
giornalista non essendo sul posto aveva immaginato che in un paese del sud il funerale di una persona molto considerata avesse dovuto naturalmente dar luogo a un grande cordoglio. E invece al funerale c'era poca gente. Ma quello che è più curioso è stato l'impatto emotivo che
l'evento ha avuto. Quando ero bambino se qualcuno si uccideva (e la cosa capitava con una certa frequenza) era come se il paese si oscurasse. Una polverina acre si depositava su cose e persone in qualche modo coinvolte nell'evento, la spina avvelenata rimaneva a lungo sotto l'unghia. Sto pensando queste cose mentre ci dirigiamo verso Cairano, il piccolissimo paese vicino ad Andretta dove Don Leone era nato e voleva essere seppellito. Ora noi siamo sulla cima del paese. Julia si è seduta per terra e guarda lo strapiombo che c'è giù. Stanno arrivando le macchine del funerale.
Sono tante, procedono lentamente. E dall'alto, una dietro l'altra, silenziose, colorate, queste macchine sembrano modellini spinti da un soffio. Osservo questa scena che fa sbiadire le tinte accese in cui ingarbugliamo ogni giorno la nostra esistenza, incapaci di lasciarla fluttuare senza freni nella sua dimora naturale tra l'indefinito e l'infinito. Scendiamo dal nostro punto di avvistamento e ci uniamo al corteo che accompagna Don Leone al cimitero. Alcune persone vestite in uno strano modo portano a spalla la bara, davanti a loro ci sono dei giovani che
intonano un canto religioso. Guardo l'uva quasi matura di una vigna adiacente al cimitero che si trova su un pendio ripidissimo, cammino a passi rapidi e sento distintamente che sto camminando, che sto vivendo un giorno della mia vita e queste persone che mi circondano sono come pane benedetto. franco arminio
9 novembre 2007
cairano / don leone
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento