9 dicembre 2007

Il Giorno di Giuseppe

Alle otto del mattino sono all’edicola. Uno dice che poco fa è passata un’ambulanza. Chissà chi è andato a prendere, risponde un altro. La discussione mattutina vira naturalmente su altri argomenti. Vado a scuola anche se non sono in servizio. Ho l’idea di fare un grande presepe a forma di cuore. All’ora della ricreazione una maestra dice che è morto Giuseppe il manovale. Ecco chi era andato a prendere l’ambulanza! Verso mezzogiorno esco da scuola. Il presepe a forma di cuore si può fare, ma mi manca il materiale e se ne riparlerà la settimana prossima. Torno all’edicola. L’edicolante sta già mettendo a posto i giornali invenduti, il pomeriggio non apre perché non c’è nessuno. In verità non c’è nessuno anche adesso.
Vado a vedere il posto dove è morto Giuseppe. Anche qui non c’è anima viva. Unica traccia dell’accaduto: una piccola goccia di sangue. Arrivano due carabinieri che fanno alcune domande a un collega di Giuseppe. Immagino che sia l’inizio di un’istruttoria giudiziaria per la quale non provo interesse. Il corpo senza vita di Giuseppe è all’ospedale. Quando è arrivato in ambulanza hanno deciso di chiamare l’elicottero per portarlo altrove, ma si è trattato di un decollo breve. L’ospedale di Bisaccia non è attrezzato per far fronte ad alcuna emergenza. È un ospedale che non si occupa di noi, ma siamo noi a doverci occupare della sua sopravvivenza. Quando dico noi penso alle poche persone che ancora si occupano delle cose collettive, delle poche persone che non si sono rassegnate. Tornando a casa mi torna alla mente la telefonata che in mattinata mi ha fatto il mio amico Andrea Di Consoli, scrittore lucano che vive a Roma. Con lui parlavamo della necessità di non abbandonare le tipiche problematiche meridionaliste. Gli ho parlato di Giuseppe, ennesima vittima di un sud che da sempre è falciato dal lutto. Il sud dei poveracci chiamati a fare la guerra per difendere una patria di cui non sapevano nulla. Le guerre di ieri e quelle di oggi. Il sud dei morti nelle miniere. Il sud di chi è partito senza più tornare. Anche per questo Giuseppe oggi è morto in un paese che sembra morto. Un paese bellissimo che è diventato il museo delle porte chiuse. Giuseppe lavorava proprio in una casa del centro antico e nessuno si è accorto del suo tonfo. Trent’anni fa quando accadeva qualcosa subito si spandeva nell’aria la polverina dello sgomento e la respiravi per molti giorni. Qualche anno fa mi è capitato di scrivere un articolo su un mio vicino di casa morto nella stessa maniera. Da allora di lui non ho mai sentito parlare. Sarà così anche con Giuseppe. Non aveva figli, non aveva una moglie e forse non aveva neppure amici. Tifava per la Juve e questa pareva l’unica forma di partecipazione alla vita degli altri. Il resto era la solita vita di calce e mattoni. Tutti i giorni, tutto l’anno, senza mai prendersi una pausa, una vacanza. Si alzava prestissimo. Non aveva molti buoni motivi per stare in casa. L’ho incontrato spesso alle cinque del mattino quando uscivo per filmare il paese alla luce dell’alba. Aveva la mia stessa età e non mi chiamava mai per nome: mi chiamava “parente” per via di una parentela su cui non mi sono mai informato. Ci occupiamo di tante cose, ma ci sono persone che proprio non ce la fanno ad attirare l’attenzione degli altri. E forse neppure la cercano. La giustizia che mi interessa non è quella dei tribunali. È la giustizia di dare valore a tutto quello che ci circonda, agli esseri e alle cose.

Da quei tetti non è caduta un tegola, ma un cuore.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

La paura della Morte ci ha fatto perdere di vista l'unica dimensione certa della Vita. questa quindi è diventata sempre meno autentica avendo perso la sua cifra più importante. Bisogna vivere il dolore che derivi della morte per poter cogliere il senso della vita e non lasciarsi prendere dalla totale indifferenza. Sapete cosa mi fa schifo di Bisaccia cosi come di Ariano e di tutti i nostri paesi? Che viviamo una condizione alienata come se fossimo dei metropolitani quando invece non siamo che nulla.
La povertà intellettuale della nostra terra ci ha reso bestie neanche assueffatte al dolore, proprio indifferenti. E questo dispiace come vedere l'indifferenza anche all'interno della nostra Comunità nei confronti del disagio o del dolore altrui, come se la Comunità fosse il palcoscenico per mostrare i nostri mostruosi Ego o la nostra accademica cultura. Di questo passo......

franco festa ha detto...

Tempo di lupi..anzi no, nessuno possiede la fierezza del lupo..è un passaggio di cupezza, di indicibile amarezza. Sono solo le parole che possono rappresentare la nostra difesa, le parole come quelle di Franco, che ci parla di Giuseppe, le parole nostre, che proviamo ad essere comunità attiva, ad alzare un muro di passione e di tenerezza contro la bufera.

Anonimo ha detto...

"Franco scrive della morte di Giuseppe, l'operaio precipitato da un'impalcatura a Bisaccia, e fa bene a continuare a commentare puntualmente gli avvenimenti, sia questo che altri meno luttuosi che accadono nei nostri paesi.
A me, sinceramente, piacerebbe di più, in questo periodo storico di trapasso, che ci fosse, anche per lutti così insopportabili, un silenzio assoluto, anche a costo di essere scambiati per cinici.
Sì, certo, è insopportabile l'indifferenza da cui siamo circondati ogni giorno, per cui verrebbe davvero la voglia di urlare, anzi di più, ululare come facevano i lupi una volta: signori, Giuseppe muore! Ma a che servirebbe?
Siamo sommersi in una società dove uno dei pilastri della nostra vita, cioè il lavoro (l'altro è l'amore, tema non a caso ritornato ad essere tabù), e parlo soprattutto del lavoro "vivo" degli operai, è svalorizzato come mai accaduto nella nostra storia.
E allora che fare, in presenza della morte tragica di un uomo? Vorrei rispondere: pregare, se la parola non fosse stata manipolata da tempo da una "razza di vipere", svalorizzata nel suo significato più autentico di ricerca di aiuto a Dio affinché mandi gli "operai" a risollevare le sorti di un popolo smarrito, oppresso dai vampiri ma anche dai suoi errori.
Resta, per ora, il dolore per questa tragedia, per quelle passate e per quelle che verranno. Guai a noi se non facessimo fruttare questo dolore, se esso non servisse a cambiare, a diventare umili, a riprendere un cammino a fianco innanzitutto della parte "dipendente" e "sommersa" della nostra società".

Con affetto
Michele Fumagallo